Dopo il Pandoro-gate, il 49% degli italiani non si fida delle charity

In Italia la beneficenza muove miliardi, ma la fiducia arranca. Secondo le ultime rilevazioni, il 49% degli italiani dichiara di non fidarsi di ONG e fondazioni, un punto in più rispetto all’anno precedente. A livello globale, invece, la quota di chi riporta fiducia nelle organizzazioni non profit è sensibilmente più alta. È come se tra l’Italia e il resto del mondo si fosse aperto un fossato di dieci punti, che dice molto sul rapporto culturale, prima ancora che economico, tra italiani e mondo non profit.

Uomo dubbioso davanti ad una cassetta delle donazioni

I recenti scandali hanno minato la credibilità degli enti benefici agli occhi degli italiani

L’inchiesta di Truffa.net segue due fili intrecciati: da un lato i cittadini che donano (o smettono di farlo), il loro profilo, le loro abitudini, le loro paure; dall’altro le organizzazioni che raccolgono quei soldi dall’Italia, la loro scala reale, i casi che in questi anni hanno minato la fiducia. Sullo sfondo, il Pandoro-gate: lo scandalo che ha travolto la campagna “Pink Christmas” di Balocco e Chiara Ferragni, diventato scorciatoia simbolica per indicare tutto ciò che, nella beneficenza “di facciata”, non torna.

Un Paese che dona poco, e in modo selettivo

Un dato, all’apparenza banale, rende il quadro più nitido: solo il 13% dei titolari di un conto corrente in Italia dichiara di aver donato denaro a cause benefiche negli ultimi dodici mesi. È una minoranza, e dentro quella minoranza si riconosce un profilo molto preciso. Chi dona è più spesso uomo (52%), ha tra i 45 e i 64 anni, un livello di istruzione medio-alto e un reddito sopra la media. È sovrarappresentata la fascia delle professioni qualificate, dei lavoratori autonomi e dei pensionati “benestanti”; molto meno presenti i giovani con contratti precari e redditi bassi. Anche la geografia conta: i donatori si concentrano nelle aree urbane, molto più di quanto faccia il consumatore medio italiano, e tendono ad essere più giovani della media: significativa la presenza della Generazione Z (21%).

C’è poi un elemento cruciale per capire perché scandali come il Pandoro-gate pesano così tanto: chi dona è, in media, molto più informato e molto più “politico” del resto della popolazione: è più probabile che legga news online ogni giorno, che segua la cronaca giudiziaria e le inchieste giornalistiche, che esprima opinioni nette su temi come ambiente, diritti civili, ruolo dello Stato. Si tratta di persone che tendono a considerarsi sopra la media per “attenzione ai temi sociali” e “impegno civile”. È un pubblico che osserva con cura e che tende a non dimenticare facilmente gli scandali.

Un altro aspetto distintivo riguarda il rapporto con il rischio economico: chi dona ha in media una maggiore propensione a pianificare il futuro, a stipulare assicurazioni private, a investire in prodotti finanziari semplici. È un profilo che, pur non essendo necessariamente ricco, vive la donazione come una scelta “in più” rispetto a un bilancio familiare già sotto controllo. Questo lo rende al tempo stesso più disponibile a sostenere cause sociali e più sensibile a qualsiasi sospetto di essere stato raggirato.

Un non profit enorme, globale e strutturato

Se spostiamo lo sguardo sull’altro protagonista – il mondo delle fondazioni, delle ONG e della cooperazione internazionale – i numeri raccontano una realtà tutt’altro che marginale. Le organizzazioni italiane attive nella cooperazione allo sviluppo e nell’aiuto umanitario gestiscono oltre 1,4 miliardi di euro di bilanci complessivi l’anno e migliaia di progetti in tutto il mondo, per un totale di oltre due milioni di donatori privati, circa 29 mila operatori e più di 52 mila volontari attivi. Non è una nicchia riservata agli italiani dal cuore buono, ma un pezzo strutturale dell’economia e della proiezione internazionale del Paese.

Nel 2023, Save the Children Italia è risultata l’organizzazione non profit con uno dei volumi di entrate più alti fra le ONG italiane, intorno alle decine di milioni di euro, sostenute da circa 560.000 donatori privati. Lo stesso anno, il Comitato Italiano di UNICEF ha contato circa 336.000 donatori, confermandosi come una delle principali piattaforme di raccolta fondi del Paese. Se si guarda al numero di dipendenti e collaboratori coinvolti, la più grande risulta Intersos, con oltre 3.800 tra dipendenti e collaboratori impegnati in contesti di conflitto e crisi umanitarie, seguita da realtà come Emergency, che mobilita migliaia di persone impegnate nell’assistenza medica gratuita in zone di guerra.

Sul fronte del volontariato, la Comunità di Sant’Egidio esprime circa 20.000 volontari e attivisti in oltre 70 Paesi, impegnati su povertà, salute, pace e mediazione dei conflitti, mentre Save the Children mobilita quasi 6.000 volontari solo in Italia, oltre ai ricavi record appena ricordati. Le ONG italiane hanno una presenza particolarmente fitta in Africa orientale e in Medio Oriente. Al 2024, tra i Paesi con più ONG italiane attive spiccano Kenya (42 organizzazioni e 178 progetti), Mozambico (36 organizzazioni e 235 progetti), Etiopia (32 organizzazioni e 220 progetti), Libano (25 organizzazioni e 146 progetti) e Palestina (23 organizzazioni e 126 progetti), a conferma di una forte concentrazione in Africa orientale e in Medio Oriente.

A questo universo si aggiunge quello delle fondazioni bancarie. Secondo il 30° Rapporto ACRI 2025, le fondazioni di origine bancaria italiane hanno erogato nel 2024 oltre 1,2 miliardi di euro a favore di progetti nei settori cultura, ricerca, welfare locale, ambiente. Si tratta di soggetti con patrimoni ingenti, governance complesse e una crescente attenzione alla misurazione dell’impatto sociale: rispetto all’anno precedente, l’ammontare delle erogazioni risulta in aumento.

Mettere in fila questi numeri serve a capire il vero paradosso italiano: un non profit che, nel suo complesso, muove oltre 1,4 miliardi di euro l’anno, sostenuto da oltre due milioni di donatori privati, circa 29 mila operatori e più di 52 mila volontari attivi, che però opera in un contesto in cui meno di un cittadino su due dichiara esplicitamente di fidarsi.

I dieci punti di ritardo sul mondo: l’effetto Pandoro-gate

I dati fotografano per l’Italia un atteggiamento che gli stessi ricercatori definiscono “neutrale”: circa la metà degli intervistati dichiara fiducia nelle ONG, l’altra metà oscilla tra indifferenza e diffidenza. La media globale, invece, dice che sei persone su dieci tendono a fidarsi: una distanza che non nasce per caso, ma si inserisce in una storia fatta di scandali molto visibili e di piccole ambiguità quotidiane sul modo in cui la beneficenza viene raccontata.

Nel 2022, prima del Pandoro-gate, il 54% degli italiani dichiarava fiducia nelle ONG; dopo lo scandalo di dicembre 2022, le rilevazioni 2023 mostrano che la quota di chi non si fida sale al 49%, il livello più alto dal 2019 e speculare a un calo della fiducia complessiva. Nel 2024 la fiducia recupera circa tre punti, ma nel 2025 – con l’inizio del processo Ferragni e il riemergere di altri casi di beneficenza «di facciata» e campagne controverse – perde già un punto percentuale, segno che il clima resta fragile. La media globale, invece, dice che sei persone su dieci tendono a fidarsi delle ONG, con un vantaggio di circa dieci punti percentuali rispetto all’Italia.

In altre parole, l’Italia non è un Paese “anti-ONG”, ma uno in cui una quota significativa di cittadini tiene le organizzazioni non profit “sotto osservazione”, pronta a ritirare la fiducia in presenza di scandali. È qui che entra in scena il Pandoro-gate, che non è stato il primo caso di beneficenza usata come grimaldello di marketing, ma quello che ha goduto di maggiore esposizione mediatica, e che si inserisce in una storia fatta di scandali molto visibili e di piccole ambiguità quotidiane sul modo in cui la beneficenza viene raccontata.

Nel 2022 Balocco lancia il pandoro “Pink Christmas” co-firmato da Chiara Ferragni, presentato come legato a una raccolta fondi per l’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino. La comunicazione, dai post social al packaging, suggerisce in modo piuttosto chiaro che comprando quel pandoro il consumatore sta contribuendo alla donazione. Nel 2023 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha sanzionato Balocco e le società riconducibili a Chiara Ferragni per pratica commerciale scorretta, sottolineando come il consumatore fosse indotto a credere che acquistando quel pandoro stesse contribuendo direttamente alla donazione. In realtà, la donazione di 50.000 euro all’ospedale era stata effettuata da Balocco mesi prima del lancio del prodotto e non era in alcun modo collegata al numero di pandori venduti. È un punto chiave: non viene contestata la donazione in sé, ma il modo in cui è stata comunicata, confondendo ruolo dell’azienda, ruolo dell’influencer e ruolo della beneficenza.

Le sanzioni sono pesanti: più di 1 milione di euro alle società di Ferragni e 420.000 euro a Balocco. L’eco mediatica è enorme, al punto che l’espressione Pandoro-gate entra nei neologismi Treccani e la vicenda continua a produrre effetti giudiziari con l’apertura del processo per truffa aggravata a Milano. Per chi dona – o vorrebbe donare – la morale che passa è brutale. Molti si convincono che anche dietro i prodotti “solidali” più patinati il meccanismo reale sia spesso quello di una donazione fissa e marginale, affiancata però da margini e cachet milionari per marchi e testimonial.

Ma non è un caso isolato

Il Pandoro-gate colpisce l’immaginario perché coinvolge un’influencer amatissima e un prodotto da supermercato, ma non è un unicum. Negli stessi anni altri casi, meno pop ma altrettanto significativi, hanno alimentato la sensazione che il confine tra beneficenza e marketing sia diventato troppo sfumato.

L’istruttoria AGCM sulle uova di Pasqua Dolci Preziosi griffate Ferragni, collegate alla charity I Bambini delle Fate, rilegge in chiave critica un copione molto simile: i messaggi promozionali “compra l’uovo per sostenere…” suggerivano che ogni acquisto generasse una donazione, mentre il contributo all’associazione era in realtà fisso e indipendente dal numero di uova vendute. In alcune email interne, il fondatore dell’associazione parla apertamente di un testo “ingannevole” e del rischio che il consumatore si senta automaticamente benefattore solo acquistando il prodotto.

Ancora più strutturale è il caso GoFundMe. Nel 2020 l’AGCM multa la piattaforma per 1,5 milioni di euro, contestando una serie di pratiche scorrette: il servizio veniva presentato agli utenti italiani come gratuito, “senza costi”, “veloce, free and safe”, ma sulle donazioni gravavano costi di transazione e, soprattutto, una commissione a favore della piattaforma preimpostata su valori come 10–15%, modificabile solo attraverso passaggi poco intuitivi dell’interfaccia. Il tutto in un contesto, quello delle raccolte fondi per il Covid e le emergenze sanitarie, in cui la propensione a leggere il dettaglio contrattuale è minima e la fiducia spontanea è massima. Anche qui, la percezione è quella di un’asimmetria informativa a vantaggio dell’infrastruttura che incassa, non del beneficiario finale.

Nel 2024, infine, un’ordinanza del Tribunale di Torino interviene su un prodotto presentato come legato all’acquisto di un macchinario per un ospedale pediatrico. La pubblicità lasciava intendere che ogni unità venduta contribuisse direttamente e proporzionalmente alla raccolta fondi, mentre la donazione reale era stata fissata a monte e versata mesi prima, senza alcun collegamento con i volumi di vendita. È un precedente prezioso da affiancare al Pandoro-gate, perché certifica, in sede giudiziaria, quanto sia problematico costruire campagne in cui il “fare del bene” è evocato in modo generico, ma i meccanismi economici restano opachi.

E adesso? Fiducia bassa, attenzione alta

Se rimettiamo tutti questi tasselli dentro il quadro iniziale, il profilo che emerge è quello di un’Italia in cui la fiducia nelle charity è bassa, ma l’attenzione è alta. Donano meno persone rispetto ad altri Paesi avanzati, ma quelle che donano sono molto più consapevoli, informate, esigenti. Sono cittadini che leggono i comunicati dell’AGCM, che hanno familiarità con espressioni come “pratica commerciale scorretta”, che cercano il neologismo “Pandoro-gate” sul sito Treccani, che commentano sui social le campagne benefiche delle grandi aziende e degli influencer.

Questa platea non rappresenta solo una quota di bilancio per le ONG, ma anche una sorta di opinione pubblica qualificata: è più presente nei centri urbani, più attiva sui social, più rappresentata nel giornalismo, nel terzo settore, nel mondo delle professioni. È il segmento che alimenta il dibattito pubblico sulla beneficenza e che tende a fare da “cassa di risonanza” quando emerge uno scandalo.

Quando questo pubblico vede campagne opache, messaggi ambigui, iniziative benefiche in cui non è chiaro chi ci guadagna cosa, reagisce con una combinazione di indignazione e ritiro della fiducia. È questa la dinamica che spiega come mai, a parità di numeri – milioni di donatori, migliaia di operatori, progetti in tutto il mondo – l’Italia continui a collocarsi nella zona grigia della neutralità, con una fiducia che non decolla e una diffidenza che resta strutturale.

Per il mondo non profit il messaggio è doppio: da un lato, c’è ancora uno spazio enorme di crescita, perché la soglia di donatori potenziali è molto più ampia di quella attuale; dall’altro, la tolleranza allo scandalo è bassissima. Ogni caso di beneficenza “strumentalizzata”, ogni Pandoro-gate, ogni campagna che mischia senza chiarezza spot e donazioni, non colpisce solo i diretti interessati, ma l’intero settore.

Ricostruire la fiducia significa allora fare due cose insieme: da un lato, continuare a lavorare sui progetti, sull’impatto, sulla capacità di raggiungere chi ha più bisogno; dall’altro, investire in una comunicazione radicalmente trasparente, che separi in modo netto marketing e solidarietà, eviti scorciatoie, spieghi in modo semplice e verificabile dove vanno i soldi. In un Paese in cui quasi un italiano su due non si fida delle charity, ma una minoranza molto vigile continua a sostenerle, il futuro del non profit passerà dalla capacità di parlare proprio a questa minoranza: i più attenti, i più critici, i più informati, ma anche i più fragili, in termini di fiducia, rispetto a quella di molti altri Paesi avanzati.

Fonti

Eli Carosi
Sono convinta che sia importante dare informazioni chiare, aggiornate e sempre verificate. Se i lettori conoscono i fatti, faranno le scelte migliori.